GOAT’s Plan

LeBron adora i piani ben riusciti

Altro tiro, altro giro… altra finale ad est. Non c’è modo migliore, se non con una parafrasi presa in prestito dal maestro Flavio Tranquillo, per celebrare anche per quest’anno l’approdo di LeBron James alle Eastern Conference Finals. Prima che i detrattori del re facciano capolino dal cespuglio in cui si erano nascosti, mettiamo le cose in chiaro: non è stato facile. E nemmeno scontato. Già, perché la stagione di King James è stata talmente piena di eventi turbolenti che a metà stagione c’era chi si chiedeva se la sua mera presenza ai playoff fosse a rischio. Riavvolgiamo allora il nastro all’estate scorsa. Prima ancora che la stagione 2017-18 aprisse i battenti, i Cleveland Cavaliers avevano detto addio al GM Griffin, visto sfumare la possibilità di firmare uno fra Paul George eRisultati immagini per lebron sad Jimmy Butler e soprattutto dovuto fare i conti con la “diserzione” di Kyrie Irving. A sostituirne la produzione offensiva – sulla carta – era arrivato Isaiah Thomas, il quale però è riuscito a fare danni sia con la sua assenza che con la sua presenza in campo.

Subito dopo la trade, infatti, a IT sono stati riscontrati problemi irrisolti all’anca che lo hanno tenuto ai box fino a gennaio. Purtroppo per i Cavs, il suo ritorno ha creato problemi anche maggiori, causa la inesistente chimica di squadra fra Thomas e il resto del roster. In più, una fase 12 sconfitte su 19 partite fra dicembre e gennaio ha portato i Cavs a radere al suolo metà del barcollante roster e rimpiazzarlo con forze fresche. In breve, sono stati portati di peso fuori città il già citato Thomas, oltre a Wade, Rose, Crowder, Shumpert e Frye. In cambio, sono arrivati in Ohio Hill, Clarkson, Hood e Nance jr. Tutto risolto? Macché! Impossibile dimenticare episodi al limite del surreale come JR Smith che tira una scodella di zuppa addosso ad un assistente allenatore e coach Lue che si prende un mese lontano da tutto e tutti per via del troppo stress accumulato. Insomma, NON la franchigia dei vostri sogni, se vi chiamate LeBron.

Di qui, molti hanno fatto due più due. La disfunzionalità a tutto tondo mostrata dai Cavs in regular season sarebbe stata esposta ancor di più ai playoff, e ciò avrebbe minato del tutto le chance del Prescelto di giocarsi le Finals. Stando al Basketball Power Index di ESPN, a metà gennaio le chance di titolo per i Cavs erano colate a picco, 0,7%. Con le possibilità di titolo ridotte al lumicino, l’idea diffusa era che a LBJ sarebbe convenuto fare stat padding, ovvero mettere insieme grandi cifre (fine a se stesse) per impressionare i cosiddetti “Bronsexual.” E in effetti, a 33 anni LeBron ha messo insieme quella che è da ritenersi una delle stagioni individuali più impressionanti non solo della sua già straripante carriera, ma di ogni epoca. Alla sua 15ª stagione nella lega, ha stabilito il proprio career-high per rimbalzi (8.6) e assist (9.1), segnando il maggior numero di punti di media dalla sua stagione 2009-10.

Inoltre, ha guidato l’intera NBA in minuti giocati, è stato secondo per triple-doppie a referto e per la prima volta in carriera ha giocato tutte le 82 partite stagionali. Ecco allora quello che ad una prima occhiata pareva essere “il piano di LeBron.” Una serie di fatiche erculee lunghe sette mesi per trascinare ai playoff una banda di scappati di casa incapace di uscire dall’est. In pratica, il miglior capro espiatorio per un fragoroso insuccesso di squadra paragonato ad un tale successo personale. Anche perché – sempre stando alla vox populi – meglio una sconfitta al primo turno che la sesta L in finale. Col record di 50-32 i Cavs erano caracollati fino al 4° posto in classifica ad est, il peggior piazzamento di una compagine guidata da King James da un decennio a questa parte. Davanti a loro, tre squadre che nell’arco della stagione avevano dimostrato di essere meglio attrezzate e allenate. Appena dietro, un avversario temibile da affrontare al primo turno, gli Indiana Pacers.

E difatti Indy ha dato battaglia, trascinando Cleveland fino a Gara 7. In una serie con poca tecnica e tanta baruffa, LeBron ha comunque messo tre pennellate d’autore, segnando 45 punti di media nelle tre gare decisive (#2, #5 e #7). Dal podio di Gara 7, si era confessato cotto come un cece, incapace anche solo mentalmente di proiettarsi fin da subito alla serie successiva, dove ad attenderli c’erano i Toronto Raptors. Un avversario all’apparenza improbo, tanto che le simulazioni davano ai Raps l’88% di probabilità di vincere la serie. Come però ripeteva spesso l’immortale Ric Flair, “To be the man, you gotta beat the man.” E la realtà ha infatti raccontato tutt’altro copione. In appena quattro partite LeBron e i suoi hanno letteralmente spazzato via le foglie d’acero canadesi dal parquet, umiliando senza appello i Raptors del loro duo di (presunti) All Star, Kyle Lowry e DeMar DeRozan.

Per il Re, si tratta dell’11ª serie vittoriosa su 11 giocate dal suo ritorno a Cleveland e – quel che è ancora più clamoroso – la 7ª chiusa con uno sweep. A una regular season già stellare, LBJ sta facendo seguire la migliore esibizione di sempre ai playoff da parte di un essere umano – e la grafica a fianco solleva più di un dubbio circa la sua effettiva appartenenza alla stessa razza di noi mortali. Ora solo i decimati Boston Celtics si pongono fra LeBron e l’8° viaggio consecutivo alle Finals. E se ciò accadrà, lo avrà realizzato senza Kyrie, senza Wade, senza IT, senza panchina e con un Love altalenante come seconda opzione offensiva. Purtroppo per i suoi detrattori, anche quest’anno, come ogni anno, è l’anno del Re, pur partito in sordina fra il fogliame del sottobosco. “I been movin’ calm, don’t start no trouble with me.” Drake l’aveva forse intuito nel testo della sua nuova canzone, ma su una cosa si era sbagliato. Non si tratta di un piano normale, e nemmeno divino. La scalata a MJ si sta arricchendo di nuovi, spettacolari capitoli. Ed è questo il GOAT’s Plan.

MVProf

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