Detroit Mock City

Stan Van Gundy ha fallito la missione di ridare lustro e dignità ai Pistons

Diciamoci la verità, per i tifosi delle squadre di Detroit sono tempi duri. I Tigers non vincono un titolo da più di 40 anni, i Red Wings sono in un progressivo calo che li ha da poco visti perdere la striscia di apparizioni consecutive ai playoff e i Lions trasudano ancora molecole infette di quella stagione chiusa a 0-16. Purtroppo per loro, i Detroit Pistons non fanno eccezione. Sono ormai lontani i bei tempi dei Bad Boys Pistons e quelli di Billups e ‘Sheed, gli ultimi storici collettivi in grado di regalare emozioni e titoli alla franchigia. Il declino è iniziato esattamente dieci anni fa in coincidenza proprio della trade che portò “Mr. Big Shot” Billups ai Denver Nuggets in cambio di uno stanco Iverson. Da allora, la squadra ha inanellato una serie di pessime decisioni manageriali una dietro l’altra. Per tentare di risollevare le sorti della squadra, nel 2014 la dirigenza ha assunto Stan Van Gundy, ex allenatore di Magic e Heat. A SVG furono inoltre consegnati i galloni di President of basketball operations, collocandolo di fatto al centro di tutto il microcosmo Pistons per qualunque materia decisionale legata alla parte sportiva della franchigia. In sostanza, l’equivalente cestistico dell’assolutismo monarchico. I risultati? In una parola, deludenti. Con solo l’ultimo anno rimasto del ricco contratto quinquennale firmato allora, è perciò naturale che in questi giorni 635959930640549677-AP-Pacers-Pistons-Basketball-11-.jpgsiano trapelate notizie circa malumori provenienti dall’ufficio del proprietario Tom Gores. Per capire la legittimità di tale malcontento, bisogna compiere una valutazione d’insieme circa l’operato del suo impiegato di punta.

Gli errori di Van Gundy sono tanto da ricercare nel suo operato da capo allenatore quanto in qualità di dirigente. Non che sia mai stato un cattivo allenatore anche ad alti livelli. Anzi, già un dieci anni fa aveva capito che il basket moderno andava giocato sul perimetro. Perciò agli Orlando Magic circondò la sua stella di allora, un dominante Dwight Howard, con tutta una serie di tiratori perimetrali, come Lee, Redick, Turkoglu e Lewis. Tale tattica gli permise di arrivare fino alle Finals, dove però il talento di Kobe e Gasol ebbe la meglio. Arrivato a Detroit, trovò in Andre Drummond quello che in teoria era l’equivalente dell’ex Superman un decennio dopo, con tanto di identici problemi dalla linea della carità. Stavolta però non riuscì un altrettanto simile mix esplosivo. In parte perché aveva ereditato un frontcourt stagnante a causa della presenza di Josh Smith e Greg Monroe. E in parte perché non poteva più contare su tiratori altrettanto importanti come quelli dei tempi di Orlando. La mancata correzione di rotta è però in gran parte colpa di SVG. Da un lato, non è stato in grado di far rendere al massimo il materiale a disposizione, come accaduto con Morris e Ilyasova – ora peraltro protagonisti ai playoff con Celtics e Sixers. Dall’altro, molti degli aiuti da lui stesso procurati tramite free agency si sono rivelati disastrosi, come nel caso del 34enne Caron Butler e dello stra-pagato e stra-infortunato Jodie Meeks. Di anno in anno, SVG ha coinvolto i Pistons in svariate trade, ma tale politica da porte girevoli non ha mai portato sul parquet né stabilità né tantomeno qualità.

Ed è qui che le colpe passano dal Van Gundy-allenatore al Van Gundy-presidente. La prima trade importante della sua gestione riguardava l’arrivo via Oklahoma City di Reggie Jackson. Complici anche gli infortuni, al prodotto di Boston College è sempre mancato il salto di qualità. Ad oggi, Jackson è da considerare lontano dalla Top 10 delle point guard, anche restringendo il campo alla sola Eastern Conference. Discorso simile per il già citato Drummond. Sebbene ancora 24enne, il centro non ha mostrato tracce della crescita sperata pur a fronte del fresco rinnovo da ben $130M. Se pagare a peso d’oro Drummond era quasi inevitabile, è la distribuzione del restante cap a destare molti sospetti. Se già i $63M elargiti a mestieranti del calibro di Jon Leuer e Langston Galloway sembrano eccessivi, i $140M di Blake Griffin hanno totalmente paralizzato il cap per il futuro. Come affermato nel pezzo che analizzava la recente trade, Griffin resta un giocatore di qualità, ma difficilmente ricalca l’identikit del giocatore funzionale per questo roster. Rischia di avere non solo problemi di compatibilità nel pitturato con Drummond esattamente come ne ha avuti con DeAndre Jordan, ma anche di leadership con lo stesso Jackson, cui spesso finirà col litigare il possesso del pallone. Sotto molti aspetti, questa trade aveva tutta l’aria di una mossa disperata per ridare ai Pistons nuove chance per di riacciuffare 636565826557230176-SI-20180313-ads-ai4-34-1-.jpgil treno per i playoff, perso però settimane prima del finale di stagione. Questa tendenza spasmodica ad una ricerca del risultato immediato invece che di un progetto sul lungo periodo è forse la colpa maggiore imputabile a Van Gundy.

Non è quindi un caso che Van Gundy abbia dato il peggio di sé nella sede che coniuga le necessità del campo e la visione della dirigenza: il draft. Egli è stato a capo della War Room dei Pistons in quattro occasioni, per quanto nel 2014 non fosse in possesso di una prima scelta. Nelle successive opportunità ha combinato solo disastri, draftando Stanley Johnson invece di Devin Booker e successivamente Luke Kennard invece di Donovan Mitchell. Sì, lo stesso Mitchell che quest’anno ha trascinato di peso gli Utah Jazz al 5° posto ad ovest e sta ora dando battaglia agli Houston Rockets al secondo turno dei playoff. Quello che rende questo snub ancora più clamoroso è che Mitchell aveva anche avuto un workout privato con i Pistons e lo stesso Van Gundy lo aveva lodato come “a very intelligent, thoughtful guy and extremely mature for a young guy coming out.” L’infatuazione per Mitchell fu però superata dalla necessità di un tiratore puro e per questo con la chiamata #12 del 2017 i Pistons hanno scelto Kennard da Duke. Certo, quello di giudicare un draft ex post è un giochino infame e che si può fare con tutte le squadre, ma con i Pistons risulta ridicolmente eclatante. Quantomeno, come mossa non è certo peggiore dei predecessori di SVG che nel 2003, potendo scegliere fra ‘Melo, Bosh e Wade, scelsero Darko Milicic alla #2…

Insomma, il curriculum accumulato da Van Gundy nei quattro anni in Michigan parla chiaro. Dal campo è arrivata appena una presenza ai playoff – più che altro una comparsata, chiusa con uno sweep – e un record totale di 152-176. Dalla sua stanza dei bottoni, poi, è stata fatta una serie di valutazioni sbagliate che hanno affossato i sogni di gloria dei fan. La nuovissima Little Caesars Arena, inaugurata quest’anno, è stata macchiata da una serie di ripetute esibizioni anemiche che hanno alienato il già scarso pubblico cittadino, e rischia ora di diventare una costosa cattedrale dedicata all’insuccesso. Visto l’alto livello di responsabilità chiesto e ottenuto, non si può che indicare Van Gundy come il primo dei colpevoli. Al netto di tutte le critiche presentate, Gores pare intenzionato a concedere a Van Gundy un ulteriore anno per provare il suo valore. Con o senza di lui – e al netto di eventi imprevedibili – questi Pistons restano lontanissimi dal riconquistare gli allori di un tempo. Per i fan di Detroit, la fine dell’incubo resta una chimera.

MVProf

UPDATE: Due giorni dopo la pubblicazione di questo articolo, Van Gundy è stato licenziato dai Pistons con effetto immediato.

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