Il nuovo GOAT della panchina

La magistrale cavalcata di Brad Stevens verso il gotha degli allenatori NBA

Fra infortuni improvvisi, trade inaspettate, faide velenose e ritorni clamorosi offerti da questa regular season NBA, è possibile che vi sia sfuggito qualcosa di meno fragoroso, ma altrettanto rilevante. Parliamo dell’ottimo lavoro compiuto da una serie di coach sulle panchine di est e ovest. Meritano in primis una menzione speciale Nate McMillan e Brett Brown per aver portato gli Indiana Pacers e i Philadelphia 76ers ai piani alti della Eastern Conference contro ogni aspettativa. Ad ovest, i complimenti vanno estesi anche a Quin Snyder degli Utah Jazz e a Gregg Popovich che, pur nel pieno della diatriba con Kawhi Leonard, ha portato i San Antonio Spurs ai playoff per il 21° anno di fila. Nel computo non va scordato nemmeno Dwane Casey.

Ironicamente già eletto allenatore dell’anno dai suoi colleghi, si è trovato disoccupato per via di una prematura uscita dai playoff. Concluso un breve ma doveroso omaggio a questo gruppo di eccellenze del pino, bisogna ora lasciare l’egemonia del resto dell’articolo all’head coach che ha di gran lunga svolto il lavoro migliore: Brad Stevens. L’allenatore delle meraviglie con un’allergia ai complimenti sta cavalcando una lunga scia di risultati e non sembra intenzionato a smettere il suo tocco magico in tempi brevi. La prima magia risale ai tempi del college, quando a soli 33 anni diventa il secondo allenatore più giovane della storia dell’NCAA a portare una squadra al National Championship game.

Era il 2010 e la Cenerentola Butler finisce ad una preghiera non accolta dal ferro da parte di Gordon Hayward dal clamoroso upset contro la corazzata Duke. Un’impresa non dissimile dal portare il Chievo in finale di Champions. Dopo aver bissato l’operazione un anno più tardi, decide che tempi sono maturi per un salto nel palcoscenico dei grandi, dove tanti come lui hanno però fallitoRisultati immagini per brad stevens hayward o nemmeno osato. Non è certo un caso che Coach K e Roy Williams si vedano bene dal lasciare le rispettive università in North Carolina, per non parlare della bizzarra serie di testacoda di Rick Pitino e John Calipari fra NBA e NCAA a cavallo del secolo.

L’approdo in NBA avviene nella piazza più storica di tutte, quella Boston che ne ha visti passare di discreti coach nella sua storia. Basti pensare a Red Auerbach e Doc Rivers, senza scordare che anche Bill Belichick opera a quelle latitudini. Il lavoro non è dei più facili, perché in mano ha sì i Boston Celtics, ma pur sempre post-smembramento dei Big Three. Il rebuilding però riesce in modi e tempi invidiabili – anche per la chiara connivenza dei Brooklyn Nets – specie se considerato che nel medesimo arco temporale squadre come Kings, Magic e Suns continuano ad annaspare nei bassifondi della lega. Il super potere di questo coach sembra quello di tirare fuori il famoso 110% da ogni giocatore, a prescindere dal pedigree.

Nella ricostruzione della squadra verso il ruolo di contender, nei cinque anni scarsi sotto Stevens fanno check-in al TD Garden ben 53 giocatori diversi, dalla A di Anthony, Joel alla Z di Zeller, Tyler. Fra questi, molti giocatori sospetti – dei mestieranti e nulla più. Sotto la guida tecnica di Stevens, però, si trasformano da brutti anatroccoli in cigni dall’euro step facile. Pretoriano di questa schiera è senza dubbio Isaiah Thomas, ultima scelta del draft 2011 e una vita vissuta a 175cm di altezza. Per un giocatore con velleità baskettare, l’equivalente di un nano da giardino in una foresta di sequoie. Enter Brad Stevens. IT si trasforma non solo nel trascinatore dei Celtics, ma addirittura in All Star e candidato MVP. L’estate successiva offre al GM Danny Ainge la possibilità di riunire Stevens con Hayward, il suo pupillo dei tempi del college, e più tardi portarsi a casa Kyrie Irving con un’operazione non dissimile ad una rapina nella notte degna di Diabolik.

Per far quadrare i conti serve però uno stravolgimento totale del roster: via Bradley, Crowder, Jerebko, Johnson, Mickey, Olynyk, Thomas, Young e Zeller. Al loro posto, dentro un mix di giocatori affamati (Morris, Baynes e Larkin) e giovani sconosciuti (Theis, Ojeleye e Yabusele) a supportare i due All Star nuovi di zecca. La rivoluzione copernicana del roster sembra promettere bene, ma da lì la parabola stagionale Boston Celtics huddledei C’s subisce punizioni di portata biblica. Irving si trascina dalla stagione precedente un problema al ginocchio che a marzo lo obbliga ad andare sotto i ferri, mentre la stagione di Hayward dura appena 5 minuti d’orologio prima che la caviglia faccia crack.

In quegli istanti di terrore, l’huddle dei giocatori riuniti davanti alla propria panchina a mo’ di impenetrabile falange oplitica è l’immagine emblematica dell’annata 2017-18 di questo collettivo. Una sorta di Ubuntu 2.0. In un momento in teoria sufficiente a polverizzare lo spirito di qualunque squadra, la leadership di Stevens ha fatto tutta la differenza del mondo. Qui è giusto fare un parallelo con Billy Donovan, ex collega ai tempi del college con Florida e a sua volta passato fra i pro in quegli stessi anni. Se la contemporanea addizione di due nuovi All Star (PG13 e ‘Melo) ha portato a OKC tanta confusione e una rapida uscita dai playoff, la sottrazione dei due All Star di Boston, ancora incellophanati, ha comunque portato Stevens ad una stagione ricca di successi.

Protagonisti inaspettati sono allora diventati “Scary Terry” Rozier, Jaylen Brown e Jayson Tatum, 65 anni in tre e l’incoscienza cestistica di chi non sa cosa sia la paura. A fare da chioccia al gruppo il 31enne Al Horford – nome da commercialista e mano da liutaio – alla miglior stagione in carriera e a sua volta All Star. Secondo FiveThirtyEight, le simulazioni davano a quel manipolo di giovani scapigliati un record previsto inferiore a .500. Stevens è invece riuscito a trasformare in 55 vittorie e il seed #2 ad est. Enormi i suoi meriti, anche se lui si trova a disagio nel ricevere gli applausi – “riservateli tutti ai giocatori,” afferma con modestia. Ai playoff Stevens compie poi un ulteriore scatto di qualità.

Partito sempre da sfavorito, con i suoi aggiustamenti di partita in partita riesce a neutralizzare prima il Greek Freak e poi la coppia delle meraviglie Embiid-Simmons, fino ad arrivare al boss finale della Eastern Conference. Quel LeBron James dal cui domicilio passano immancabilmente, dal 2011 a questa parte, le sorti dell’est. E quella serie, al momento, la sta vincendo Boston per 2-1. Dopo meno di cinque stagioni di esperienza fra i più grandi, a soli 41 anni (anche se ne dimostra 15) coach Stevens ha preso in mano l’NBA ed è ad oggi il migliore allenatore della sua generazione. Il 25 giugno, Stevens sfiderà Snyder e Casey per il titolo di Coach of the Year, un riconoscimento che appare alla sua portata ora e per diversi anni a venire. Ci arriverà da favorito, ma non diteglielo: di tutti gli aggiustamenti fatti sul campo, la sua allergia ai complimenti resta incorreggibile.

MVProf

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