L’importanza di chiamarsi Becky

Molto presto uno o più team avranno una donna come head coach

È iniziata in questi giorni per i Milwaukee Bucks la ricerca del loro nuovo head coach per la prossima stagione. Dopo essere stati eliminati ai playoff in sette partite dai Boston Celtics, è apparso chiaro che la franchigia non volesse perdere tempo nel progettare il proprio futuro. La stagione dei Bucks era cominciata con Jason Kidd alla guida tecnica della squadra, ma l’ex play dei Mavs era stato licenziato a metà stagione e la panchina era stata affidata all’interim coach Joe Prunty. Dopo aver vagliato diverse opzioni, mercoledì pomeriggio i Bucks hanno deciso di assumere l’ex coach di Atlanta Mike Budenholzer. Più che in ciò che è accaduto, la vera storia risiede in ciò che (per ora) non è accaduto. Infatti, fra i candidati di rilievo per diventare il 16° capo allenatore della squadra del Wisconsin era emerso un nome che ha suscitato l’interesse di media e fan: Rebecca “Becky” Hammon.

Sì, una donna. Per chi non avesse familiarità con questo nome, la Hammon è stata una delle più grandi giocatrici di basket femminile di sempre. Tre volte All-American a Colorado State, ha avuto una carriera stellare in WNBA con le New York Liberty e le San Antonio Silver Stars. Dal 2014 è stata assunta dai San Antonio Spurs come assistente allenatore di Gregg Popovich. In altri termini, il più grande guru in assoluto nel fornire l’apprendistato migliore ai propri assistenti. Nelle ultime stagioni, Mike Brown, Mike Budenholzer, Brett Brown, Jacque Vaughn e James Borrego sono passati in pochi anni dai banchi della scuola Pop alla cattedra di altre squadre NBA. Nel computo andrebbero inclusi anche Steve Kerr e Quin Snyder, i quali – seppur mai formalmente assistenti allenatori sotto Pop – hanno rispettivamente giocato per gli Spurs e allenato la squadra di D-League di San Antonio. Durante la stagione 2017-18, il gruppo di assistenti degli Spurs comprendeva anche Ettore Messina, l’ultimo degli esclusi alla corsa per la panchina dei Bucks.

Insomma, la piovra con gli speroni ha esteso i suoi tentacoli su buona parte della NBA. Chi però sembra non beneficiarne appieno e restare un passo indietro a tutti è proprio la Hammon. Ma non certo per colpa di scarse capacità o endorsement negativi. Suo sponsor principale è stato lo stesso coach Pop, che per primo ha creduto nella Hammon tanto da renderla il primo allenatore donna in un coaching staff NBA e prepararla per guidare una franchigia nel ruolo di capo allenatore. Un altro importante attestato di stima proveniente dall’Alamo è giunto per mano di Pau Gasol. In una lettera pubblicata per The Players’ Tribune, l’ala grande ha usato parole H4GV66MDEGDPRZOSVEVCNTL5JE.jpgdi grande incoraggiamento per la sua allenatrice. “I’ve played under two of the sharpest minds in the history of sports, in Phil Jackson and Gregg Popovich. And I’m telling you: Becky Hammon can coach.” Il catalano ha espresso un altro punto di grande rilievo, ovvero la diffidenza di lungo corso degli americani nei confronti degli europei. Il valore di Gasol fu messo in dubbio prima del draft 2001 non per mancanza di talento, ma per le implicazioni del suo background europeo. Chi vive da quella parte dell’oceano, secondo il parere comune vigente negli States, è soft e privo di leadership. Motivazioni simili hanno tenuto lontano anche gli allenatori del vecchio continente dalle panchine europee fino a quest’anno, quando i Suns hanno assunto Igor Kokoskov per la stagione 2018-19. Per una lega con 71 anni di vita e dalla tradizione ampiamente progressista, si tratta di dati eclatanti. Se esistono resistenze di questa portata nei confronti dei bianchi europei, non deve sorprendere che il problema dell’inclusione dei gruppi meno privilegiati resti problematica, pur in un presente contraddistinto da movimenti di legittimazione come quello #MeToo.

Pur in una lega composta per il 75% da giocatori afroamericani, all’inizio della stagione 2017-18 vi erano solo 8 head coach neri, pari al 27%. Fra questi, la metà ha poi perso il posto di lavoro. Trattasi di Earl Watson (PHX), David Fizdale (MEM), Jason Kidd (MIL) e Dwane Casey (TOR). Con nove panchine in totale che hanno subito un cambio di allenatore nel corso della stagione NBA, il licenziamento di quattro coach afroamericani resta un dato poco incoraggiante. Solo Tyronn Lue (CLE), Nate McMillan (IND), Doc Rivers (LAC) e Alvin Gentry (NOLA) resistono ancora al proprio posto. Fra quelli appartenente a tipi differenti di minoranze a parte neri e caucasici, l’allenatore di origine filippina Eric Spoelstra (MIA) è ad oggi il primo e unico rappresentante di sempre. Insomma, l’ambiente in cui Becky Hammon dovrebbe entrare da protagonista e rompere una nuova barriera ha ancora molti passi da fare.

Passi che, a livello intuitivo, sarebbero già dovuti essere compiuti anni e anni fa. In tantissimi ambiti – sportivi e non – uomini e donne possono contribuire in maniera diversa e complementare grazie ai propri set unici di abilità, conoscenze e sensibilità. Stesso dicasi per chi appartiene a minoranze di tipo geografico, razziale, religioso o sessuale. Non si parla di ciò dietro un vuoto idealismo di pura forma. Infatti, un recente studio di McKinsey, ha dimostrato una correlazione significativa fra diversità e successo all’interno di numerose aziende. La speranza è che Becky Hammon possa portare a sua volta il proprio contributo in quanto grande conoscitrice di ogni ambito del gioco, e in base ad esso, e solo ad esso, venire giudicata. Almeno per il futuro prossimo, i Bucks non saranno la sua casa. Ma non pensate che ciò la farà desistere dal suo obiettivo. Da giocatrice, i limiti del suo fisico minuto sono stati iper-compensati da uno spirito indomito, che l’ha portata ad essere eletta una della migliori 15 giocatrici della storia della WNBA. Ora da allenatrice un nuovo grande ostacolo le si pone di fronte, ma c’è da scommettere che la Hammon sovrasterà anche quello.

MVProf

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