Il movimento #MeToo arriva nello sport

Il 2017 ha iniziato una rivoluzione, trascinata da un hashtag e un movimento che finalmente sa di poter essere creduto. Sta ora al 2018 portare avanti la causa

Il 2017 si era aperto in gennaio con la prima Marcia delle Donne delle 673 manifestazioni simili replicate in 84 paesi al mondo e non è un caso che si chiuda a dicembre con il Time che ha scelto come Person of the Year i silence breakers, ovvero gli uomini e le donne che hanno scelto di rompere la barriera del silenzio spesso uniti sotto all’hashtag #MeToo, movimento potentissimo che pure resta senza un vero leader. Fra di loro, in copertina sono presenti volti noti di grande e piccolo schermo insieme ad altri meno noti, se non del tutto sconosciuti o addirittura rimasti anonimi. Chi però è senza dubbio conosciuto al grande pubblico sono i personaggi famosi da loro denunciati e messi a nudo. La rivoluzione è ben avviata, ma non fingiamo che il problema stesso sia recente, nato a sua volta nel 2017. Fin dagli anni ’60, Bill Cosby, il popolare papà Cliff dei Robinson e figura paterna per almeno una generazione di americani, aveva la passione per le donne, che lui stesso era solito drogare e poi stuprare. Negli anni ’70 il regista Roman Polanski a sua volta drogò e stuprò una 13enne, crimine per cui si è dichiarato colpevole, salvo poi fuggire in Europa per evitare le conseguenze. Negli anni ’80 l’oscar Kevin Spacey portò il 14enne Anthony Rapp ad un party alcolico di Broadway e poi tentò di sedurlo. Da quando raggiunse la popolarità negli anni ’90, il mega produttore hollywoodiano Harvey Weinstein si sarebbe reso protagonista di numerosi atti di stupro e violenza carnale, che vede fra le vittime Gwyneth Paltrow e Angelina Jolie. Se già nei primi anni del duemila Cosby e Polanski avevano già dovuto rendere conto alla legge delle proprie azioni, è nella seconda metà di questo decisivo 2017 che le cose hanno vissuto un’improvvisa accelerazione. La prima tessera del domino a cadere in ottobre è stato Weinstein. A seguirlo sono poi stati Spacey, Louis CK, Brett Ratner, Jeremy Piven, Charlie Rose, Matt Lauer… e la lista si allunga ogni giorno di più.

Questa marea inesorabile ha esondato anche sul mondo della politica, con diversi membri di Washington a finire nel mirino. E il problema è assolutamente bipartisan. Fra i Democratici, il Senatore del Minnesota Al Franken si è dimesso a seguito di alcune foto inappropriate e testimonianze di donne emerse sul web. Più grave invece il comportamento del candidato dell’Alabama per il Senato Roy Moore. Lui che già come giudice aveva dimostrato manica sospettosamente larga nei confronti degli stupratori di minori, è stato accusato di aver abusato di ragazzine adolescenti. Questi però non solo ha deciso di proseguire imperterrito la sua corsa (poi persa), ma ha goduto dell’appoggio del Presidente Donald Trump, disposto a spendersi in uno scomodo endorsement pur di assicurarsi un posto in più all’interno di un Senato a risicata maggioranza rossa. Quest’ultimo poi è per certi versi il gran visir della condotta immorale. Da magnate prima e da uomo di spettacolo poi, ha rilasciato negli anni diverse interviste a dir poco infelici nelle quali suggeriva di essere stato protagonista di comportamenti inappropriati. Fra i peggiori ammessi peraltro con un certo orgoglio, essere volutamente piombato nei camerini delle miss dei concorsi e di come la fama gli assicurasse donne da afferrare senza sforzo per le loro parti intime. Sommando tutti questi casi citati fin qui, le vittime accertate hanno superato il centinaio. Se si considera che si tratta di pochi personaggi noti e certamente al contempo che solo una frazione delle vittime ha deciso di rompere il silenzio, appare chiaro che IMG_0483.PNGè stata appena appena scalfita la punta di un gigantesco iceberg. Come quasi sempre accade, il mondo dello sport non è certo impermeabile a episodi che riguardano abusi di potere e atti di violenza verso le donne.

Fra loro, spicca McKayla Maroney, campionessa olimpica di Team USA a Londra 2012 nel concorso a squadre femminile. Allora era simpaticamente diventata nota per “McKayla is not impresseed,” una serie di meme nati dalla curiosa smorfia con cui dal podio aveva reagito alla medaglia d’argento guadagnata nel volteggio – un risultato enorme per chiunque, ma un piccolo smacco per una perfezionista come lei. Nel 2017, ormai ritiratasi dalle competizioni ufficiali, il suo nome è tornato protagonista delle cronache, purtroppo per i motivi peggiori. La sua storia è stata raccontata a sua volta attraverso l’hashtag #MeToo e dimostra come questa piaga sociale non conosca nemmeno vincoli d’età. Stando alla sua testimonianza, Lawrence G. Nassar, medico di punta della squadra americana di ginnastica, avrebbe continuato ad abusare di lei fin dall’età di 13 anni, persino la sera prima della sua gara a Londra 2012, quando di anni ne aveva 17. Nel bene e nel male, McKayla non è da sola. Al momento, più di 140 donne hanno fatto causa al dottore, indagato per abusi sessuali in una lista di ben 22 reati di primo grado che si ritiene si estendano come minimo dal 1994 al 2016. Le storie delle sue vittime sono tristemente troppo simili per essere frutto di casualità o cospirazione. Come medico osteopata, era solito penetrare con le dita e senza guanti giovani atlete in età prepuberale e/o adolescenziale con la scusa di dare sollievo a ossa e articolazioni. Nassar è stato parte del team medico della nazionale americana da Atlanta ’96 fino a Londra ’12, e al contempo operava nelle strutture di Michigan State University, ateneo in cui si era laureato nel 1993. Le sue azioni gli hanno già assicurato 60 anni in galera, una sentenza che è sostanzialmente identica all’ergastolo per il 54enne Nassar. Per il resto dei suoi reati, il verdetto arriverà a gennaio e gli anni di reclusione non potranno che salire, un atto giuridicamente dovuto quanto a questo punto fin troppo simbolico. MSU e la nazionale si sono trincerati in pochi scarni commenti, ma è chiaro che le teste di chi ai piani alti sapeva e ha scelto il silenzio dovranno prima o poi cadere.

Il caso del Dr. Nassar ha ricordato a molti un’altra triste pagina di cronaca del recente passato, che con questa vicenda ha diversi tratti in comune e il poco invidiabile merito di aggiungere un’ulteriore tessera a questo apparentemente insensato puzzle. Infatti, spesso e volentieri, chi molesta non fa neanche distinzione di genere. Jerry Sandusky per anni divideva il suo tempo fra Penn State, dove per 32 anni  è stato assistente allenatore della squadra di football, e The Second Mile, un’associazione benefica da lui fondata che si proponeva di fornire un aiuto a giovani problematici. Peccato che Sandusky usasse quella struttura per circuire i giovani ragazzi per poi abusarne nelle strutture dell’università. Le voci delle azioni di Sandusky arrivarono fino alle orecchie del venerato Joe Pa (lo storico capo allenatore Joe Paterno). Tuttavia, questi, insieme ai vertici dell’università, insabbiò la storia per proteggere il programma e la squadra, finché nel 2011 lo scandalo travolse tutti. La cultura degli stupri all’intero dei campus universitari non è nuova né ristretta ai casi di Nassar e Sandusky. Fra il 2012 e il 2016 diversi giocatori di Baylor University si sono resi colpevoli di stupro nei confronti di ragazze, ma di nuovo il comportamento delle alte sfere era più volto a proteggere il benessere del programma che quello delle vittime, simile a quanto fatto da Florida State University nel 2013 per proteggere Jameis Winston. Alla base di tutto, da parte delle scuole ci sarebbe la mancata ottemperanza del Title IX, una legge contro la discriminazione negli atenei. La violazione accade quando vi è un mancata parità di trattamento in Immagine correlatacaso di denuncia di abusi, specie quando la segnalazione è diretta ad atleti di sesso maschile che ricevono un trattamento di favore dalle autorità del college. Secondo un articolo di Deadspin, che peraltro cita ad nauseam almeno un’altra dozzina di casi analoghi di violenza nei campus USA, al momento ci sono 255 investigazioni in corso circa possibili violazioni del Title IX.

Spettacolo, politica, e poi ginnastica, sport universitari – ma non solo. Basta un pc e un motore di ricerca per trovare casi analoghi in tennis, hockey, basket, calcio, sci, network sportivi e vertici federali. Ora è il momento giusto per fermarsi e riflettere. La lunga lista di casi citati sopra ha di volta in volta dimostrato come tale piaga sociale non conosca barriere di ambito, tempo, latitudine, fazione politica, età delle vittime e nemmeno il loro genere. Non esiste forse modo migliore per evidenziare la sistematicità di tali comportamenti. La prima, grande obiezione al movimento #MeToo è chiedersi perché mai tutte queste vittime abbiano convissuto con questo peso in silenzio per tanti anni, salvo poi susseguirsi una dopo l’altra con tempismo sospetto. La classe dominante (per semplificare, diciamo l’uomo bianco etero) ha pochi problemi ad alzare la voce e farsi rispettare quando viene attaccato dall’esterno e da un suo pari. Molto più difficile invece risulta per donne o gay porsi allo stesso livello, e avere pari dignità e voce in capitolo. Alcune vittime avevano allertato insegnanti, allenatori, terapisti, la polizia e pure i propri genitori subito dopo l’accaduto, solo per sentirsi dire che era tutto in regola, che il tale era un luminare che sapeva quello che faceva o che mai tizio avrebbe potuto fare cose del genere. Come pretendere, da parte di una donna o ancor di più da un/a ragazzino/a, di essere creduti quando chi accusava era adorato da tutti, specie quando il rischio di essere dileggiati o peggio ancora puniti era del tutto reale? Da oggi normalizzare tali comportamenti non è più consentito e non solo per un cambiamento della moralità occidentale. Viviamo in un periodo storico in cui chi si sente oppresso o discriminato a qualsiasi livello può finalmente far sentire la propria voce.

In primis grazie allo sviluppo capillare dei social network, medium che prima di allora rendeva impossibile organizzarsi e coordinarsi all’unisono nei cinque continenti dietro un unico hashtag. Prima di questi ultimi tempi, le vittime finivano con l’essere emarginate, da chi le accusava di essersela cercata o da se stesse, chiuse in un silenzio autoconservativo. Ora ci sono blog, vlog, pagine facebook, twitter, tumblr, tutti mezzi a disposizione di queste persone per fare massa e dire al mondo “Adesso basta!” Per molti è adesso che la loro voce viene udita per la prima volta e ciò può causare un certo turbamento in chi tutt’a un tratto si vede additare come potenziale maniaco, senza che lui o lei avesse mai pienamente abbracciato con coscienza quel ruolo. Se anche solo una cosa letta in questo articolo vi ha disturbato, utilizzate questa come un’opportunità per un breve esame di coscienza, nel senso più senechiano possibile del termine: «Quale tuo male hai guarito oggi? A quale vizio ti sei opposto? In quale parte (di te) sei migliore?». Come prevedibile, è già in atto e a pieno regime un movimento reazionario a quello del #MeToo. È tutta una moda, un’isteria collettiva, ora finisce che se dico buongiorno a una donna mi denuncia. Baggianate! La sensibilità di ciascuno dovrebbe essere sufficiente a capire quali limiti valicare e quali non. Nella vita esiste una regola d’oro: non fare agli altri quello che non vorresti che gli altri facessero a te. Tuttavia, è possibile che in questi termini il messaggio non arrivi al bersaglio. Allora tentiamo una rielaborazione in chiave 2017. “Non fare a una donna quello che non vorresti che un carcerato facesse a te nelle docce di una prigione.” Auguri per un migliore 2018.

MVProf

P.S. La pletora di link di cui è cosparso l’articolo non è casuale: l’invito ai lettori è quello di leggere, informarsi, controllare i fatti e costruirsi un’opinione personale.

 

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