The Curse of the Bambino

Macumbe, anatemi e malocchi: le maledizioni sportive attraverso la storia

To sell something for a song” è un modo di dire abbastanza comune nel mondo anglosassone. Questa frase idiomatica è traducibile con l’idea di separarsi da una cosa in cambio di qualcosa di poco valore. AI protagonista di questa storia è capitato di portare l’assunto ad una nuova vetta: essere venduto per un musical. Ma andiamo per gradi. Siamo alla fine del XIX secolo e ci troviamo negli Stati Uniti, più precisamente a Boston. Qui nel 1871 era nata una delle primissime squadre professioniste di baseball. Il team faceva parte della National League (ora una delle conference della MLB, ma allora una lega indipendente) e il loro miglior lanciatore era Albert Spalding. Questi sarà sì un nome imperituro nella storia dello sport, ma di un altro. Questi infatti fondò pochi anni più tardi l’omonima azienda di prodotti sportivi. Proprio a lui il Dr. Naismith, l’inventore del basket, commissionò un pallone da usare per quel suo curioso gioco indoor. Al tempo, per una squadra di baseball avere un nickname era un concetto piuttosto aleatorio e spesso lasciato in mano alla stampa.

Infatti, negli anni la franchigia aveva assunto denominazioni diverse. Quello originario era Red Stockings, nome scelto per via del colore rosso dei calzettoni indossati dai giocatori. Sempre a Boston, nel 1901 era nata un’altra squadra di baseball, che faceva invece parte della rivale American League. A loro volta erano rimasti senza un nickname ufficiale negli anni che seguirono la fondazione, venendo chiamati a seconda dei casi solo Boston o Boston Americans. Nel 1907, il manager della squadra di NL Fred Tenney, preoccupato che la tinta rossa potesse creare infezioni ai giocatori, optò per una divisa totalmente bianca, interrompendo una lunga tradizione. Disponibile su piazza da nemmeno 24 ore, il colore rosso fu immediatamente accaparrato dai rivali cittadini per le proprie uniformi di gioco. Questi colsero al volo l’occasione di far indossare ai propri giocatori gli iconici calzettoni rossi e in nome di questi coniare per sé un nome ufficiale che altro non era che la contrazione di quello dei rivali. Da questo doppio “scippo” nascono i Boston Red Sox.

Mentre la squadra aveva iniziato la propria storia in maniera superba e si apprestava a vincere la prima edizione delle moderne World Series grazie all’immortale Cy Young, la nostra storia ci obbliga a spostarci verso sud, a Baltimore. Un luogo molto popolare in città al tempo era la St. Mary’s Industrial School, scuola di formazione per soli maschi. Oddio, “scuola” è un concetto riduttivo. L’istituzione era tanto un orfanotrofio quanto un riformatorio per giovani problematici. Come nome e matrice cattolica suggeriscono, le punizioni corporali erano tutt’altro che una rarità. Nel 1902 vi fa il suo ingresso, bollato come “incorreggibile,” un ragazzino di sette anni di nome George Herman Ruth. Secondo alcuni, a condurlo a St. Mary fu il suo passatempo preferito, il baseball di strada. Pare che avesse la tendenza a battere la palla così forte da sfondare le finestre dei vicini e questo spiegherebbe perché, benché non fosse orfano, passò gran parte dell’infanzia in questa struttura. All’interno di St. Mary, Padre Matthias apprezzava molto le doti atletiche di George e lo inserì nella squadra di baseball, dove il giovane trovò la sua dimensione come lanciatore.

Fu notato da Jack Dunn, proprietario della squadra cittadina di minor league, gli Orioles. Poiché al tempo George era minorenne, Dunn dovette diventarne il tutore legale per poterlo assumere nella sua squadra. Dopo dodici anni passati in gran parte all’interno di St. Mary, George era del tutto impreparato al mondo esterno e così seguiva ed eseguiva tutto ciò che Dunn diceva e faceva. Questo 1b11c1cd8fa410b3e7eedff4b9265602--yankees-baby-sports-baseball.jpgsuo comportamento quasi da figlio adottivo di Dunn attirò le prese in giro dei veterani della squadra. Ogni volta che vedevano il giovane lo apostrofavano come “Dunnie’s babe.” Quel soprannome – nemmeno tremendamente originale, ma comunque migliore di quelli ben più offensivi datigli prima e dopo – gli rimase addosso per tutta la vita. Ecco perché non passò alla storia come George, ma come Babe Ruth.

Il dissesto finanziario di Dunn lo costrinse in fretta a vendere i suoi migliori giocatori alle squadre della major league, tra cui anche Babe Ruth. Il 4 luglio del 1914 fu venduto ai Boston Red Sox. Il suo arrivo a Boston passò del tutto inosservato, anche perché il vero evento di quell’anno in città fu la rimonta dei loro rivali. Quelli un tempo noti come Red Stockings erano nel frattempo diventati i Boston Braves (oggi Atlanta Braves) e quell’anno avevano vinto le World Series da underdog assoluti. Dopo una prima stagione in sordina, Ruth poté finalmente scrollarsi di dosso l’etichetta da rookie. Il suo impiego nella stagione regolare aumentò e fu importante nell’aiutare i Sox a vincere tre titoli in quattro anni a cavallo della Grande Guerra (1915, 1916 e 1918). A questo punto della sua carriera, Ruth era considerato il miglior lanciatore mancino della lega, ma la sua fama come battitore di home run cominciava a crescere.

In quegli anni, noti come quelli della Dead-ball era, le partite erano a basso punteggio e molto raramente si poteva assistere a palle sparate al di fuori della recinzione di Fenway Park. Nel 1919 Ruth vide il suo ruolo come lanciatore diminuire e quello di battitore diventare il suo marchio di fabbrica, assecondando il volere dei fan incantati da quel modo di battere totalmente innovativo. Quell’anno Ruth distrusse il record di lega degli homer: 29, cinque in più del precedente record. Per fare un’analogia di questo cambiamento di ruolo di così grande successo e senza precedenti, si può immaginare un Andrea Pirlo al top della carriera che da un giorno all’altro passa da regista basso a prima punta, con annesso titolo di capocannoniere. Impensabile – ora come allora. La fama di Babe Ruth era alle stelle.

Nel frattempo il team era finito in mano a Harry Frazee, promoter teatrale della Grande Mela. In gioventù modesto giocatore di baseball a sua volta, era diventato milionario ancora trentenne grazie alla sua attività di promoter. Le sue ovvie connessioni con Broadway lo portavano spesso a frequentare i circoli più importanti della città, dove poté incrociare il colonnello Tillinghast L’Hommedieu Huston, il proprietario dei New York Yankees. Nati nel 1903 col nome di New York Highlanders, non avevano mai vinto un titolo, ma Huston era determinato a cambiare le cose. Nel dicembre del 1919 questi pagò a Frazee la cifra record di $100,000 per il contratto di Babe Ruth, più un prestito di ulteriori $350,000. Stando alle cronache, Frazee necessitava di denaro per finanziare le sue numerose produzioni di Broadway – il suo primo e vero amore – e vendere il suo miglior giocatore fu un sacrificio necessario. Nello specifico, si ritiene che i soldi guadagnati con la vendita di Babe Ruth siano stati usati per finanziare il musical No, No, Nanette che, perlomeno, ebbe un discreto successo.

Negli anni successivi alla vendita, i destini di Yanks e Sox subirono una brusca inversione di tendenza. I primi costruirono attorno a Ruth e Lou Gehrig la famigerata Murderers’ Row, il gruppo di fenomeni che contribuì a stabilire una dinastia che ha reso i newyorkesi la franchigia più vincente d’America con 27 titoli (di cui 4 con Babe Ruth). A NYC divenne per tutti il più grande giocatore di baseball della storia e molti dei suoi record sono rimasti insuperabili per decadi. E chissà quanti ancora ne avrebbe potuti raggiungere, se solo avesse avuto Risultati immagini per reverse the curseun qualche interesse ad allenarsi fra una gita al bordello e una sbronza coi fiocchi. Sui Red Sox, al contrario, era calata una maledizione: The Curse of the Bambino.

Un tempo habitué delle World Series con 5 successi in 15 anni, Boston non tornò alla finale che nel 1946, solo per perdere il titolo a Gara 7. La stessa sorte capitò anche nel ’67, nel ’75 e soprattutto nell’86. Con due out e la vittoria a un passo, una innocua palla bassa navigò fra le gambe di Bill Buckner in prima base, consegnando la vittoria ai New York Mets. Per la quarta volta consecutiva, i Sox erano arrivati vicinissimi al traguardo e immancabilmente uscirono sconfitti dalla decisiva Gara 7. Quasi una moderna rielaborazione del mito di Sisifo. Presa coscienza che solo una maledizione poteva aver funestato la propria squadra, i tifosi dei Red Sox si inventarono modi sempre più bizzarri per tentare di spezzarla.

Questi inclusero una scalata all’Everest, un segnale stradale modificato, vari esorcismi di Fenway Park e l’idea nemmeno troppo ventilata di riesumare Ruth per scusarsi pubblicamente con la sua salma. Tanto fu pesante passare il XX secolo senza ulteriori vittorie quanto fu dolce il momento che ruppe la maledizione. Ottobre 2004, finale di American League. Boston Red Sox contro New York Yankees. Perse le prime tre partite nella serie e in svantaggio nel 9° inning di Gara 4, i bostoniani erano pronti all’inevitabile aggiunta di una nuova tacca alle delusioni patite dalla maledizione di Babe Ruth. Contro ogni pronostico, i Sox di David Ortiz portarono avanti una rimonta storica, vincendo la serie 4-3. Questo li rese la prima squadra nella storia del baseball americano a vincere una serie partendo dal baratro dello 0-3. Forti di questo successo così simbolico, la sera del 27 ottobre i Sox completarono lo sweep dei St. Louis Cardinals all’ombra di una propizia eclisse lunare e riuscirono così a vincere il primo titolo dal 1918. Ottantacinque anni dopo la scellerata vendita di Ruth, la maledizione era spezzata. Fra gli artefici del miracolo dei Sox ’04 c’era il GM Theo Epstein, che da presidente dei Chicago Cubs romperà un’altra maledizione lunga e dolorosa. Ma questa è una storia per un altro giorno.

MVProf

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