Non vi è piaciuto l’All Star Game? Problemi vostri

Dramma, highlights e spettacolo: l’ASG 2019 è stato il pacchetto completo

In NBA, febbraio è sinonimo di All Star Weekend e, nello specifico, All Star Game. Giunta alla 68ª edizione, la partita delle stelle  di quest’anno ha visto affrontarsi il Team LeBron e il team Giannis, con la squadra capitanata da LeBron James uscita vincitrice per 178-164. Altrettanto puntuali sono però arrivate le immancabili critiche. L’obiezione principale riguarda lo scarso spirito competitivo che anima la serata, con le due squadra fin troppo disinteressate in tutto ciò che accade sul lato difensivo del campo. Difese inesistenti portano a valanghe di tiri da tre punti (domenica è stata tentata la cifra record di 167 triple) e questi, a loro volta, a punteggi esagerati. Ma questo non è certo una novità. Basti pensare che dal 2001 almeno uno dei due team segna 120 punti e che l’ultimo ASG finito con punteggio combinato inferiore ai 200 punti risale addirittura al 1973. A meno di imprevedibili cambi di mentalità o di regolamento, questo trend è destinato a continuare finché esisterà l’NBA. Troppo alti i rischi e quasi inesistenti i benefici per i giocatori per pretendere 48 minuti di basket competitivo, specie all’interno di una stagione da 82 partite.

In origine, l’All Star Game è stato ideato come vetrina per riunire tutti i migliori giocatori e farli competere all’interno di una partita di esibizione. Per molti fan, quella rappresentava l’unica possibilità dell’anno di vedere i propri giocatori preferiti. Tuttavia, l’odierna martellante copertura televisiva e social di ogni partita di ogni squadra ha pressoché eliminato il fattore sorpresa che un tempo esisteva e, di conseguenza, ha portato i fan a elevare le proprie pretese in termini di intrattenimento. Ma se in passato alcune lamentele potevano avere diritto di cittadinanza, quest’anno non sono ammesse rimostranze. Per il secondo anno consecutivo, la lega ha modificato il dualismo East-West e introdotto un sistema di draft in stile campetto. E quest’anno, ascoltando lo spunto dei fan, l’NBA ha pure portato in tv il draft dei giocatori delle due squadre. E non poteva esistere modo migliore di questo per scatenare i rumor. Le scelte dei compagni da parte di capitan LBJ a molti non è sembrata casuale: a fare parte del Team LeBron sono infatti stati Kevin Durant, Kyrie Irving, Kawhi Leonard e Klay Thompson, tutti futuri free agent spesso chiacchierati in orbita Los Angeles Lakers.

E con King James c’era pure Anthony Davis, a lungo accostato proprio ai lacustri in queste settimane e sulle cui condizioni fisiche in molti hanno speculato. AD ha finito per giocare solo 5 minuti, ma la sua presenza sul parquet implica realisticamente che i New Orleans Pelicans non potranno tenerlo a riposo precauzionale nel resto della stagione. Altro motivo di interesse era dato dall’ultimo All Star Game di Dirk Nowitzki e Dwyane Wade, rispettivamente 14 e 13 presenze in carriera alla partitissima e ora prossimi al ritiro. Nel caso di Wade, presente per tutto il weekend con il figlio Zaire (che qualche consiglio deve averlo scucito ai colleghi di papà) il significato era doppio.

Per l’ex Flash la partita portava con sé anche la promessa, poi mantenuta, di fornire all’amico fraterno LeBron un ultimo assist al bacio per una schiacciata, un revival dei tanti highlight dei loro anni ai Miami Heat. Ed è appunto dalla partita che sono arrivati numerosi altri momenti memorabili. Le triple dal logo di Damian Lillard,  le scintille fra Durant e Joel Embiid, il passaggio di Steph Curry per la schiacciata di Giannis Antetokounmpo (con relativa auto-candidatura allo Slam Dunk Contest 2020) e infine la rimontona dei lebroniani con un KD formato MVP. Ecco, se tutto questo non vi ha intrattenuto, forse il problema non risiede nello spettacolo in sé.

MVProf

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *