Celtics & Kyrie – un fallimento condiviso

All’interno delle problematiche che hanno compromesso la loro stagione

Non c’è davvero nulla che regga il paragone con i playoff NBA. Certo, la regular season è utile per sviluppare trend, creare storyline e ammirare mascotte che sparano t-shirt con i bazooka, ma è solo a maggio e giugno che le leggende vengono forgiate e gli impostori smascherati. Immancabilmente, la considerazione dei singoli team va di pari passo con quella della loro superstar. Solo nell’ultimo mese, ad esempio, le ottime prestazioni della prima postseason dei Denver Nuggets di Nikola Jokic stanno ricevendo applausi anche dai più scettici, mentre la terza stagione in tripla doppia di Russell Westbrook è risultata del tutto irrilevante davanti alla terza uscita consecutiva al primo turno di OKC. Chi ha visto precipitare le proprie quotazioni forse più di chiunque altro sono però i Boston Celtics e Kyrie Irving. Freschi di eliminazione per 4-1 per mano dei Milwaukee Bucks, Irving è il degno giocatore-immagine di una squadra che prometteva tanto, ma che ha raccolto poco. A dispetto dei voli pindarici dei propri fan – Bill Simmons su tutti – il team e la propria stella hanno fallito proprio in quelli che a inizio anno si pensava sarebbero stati i punti di forza.

Finito KO dopo appena 5 minuti nel debutto bostoniano, il ritorno di Gordon Hayward sarebbe dovuto essere il principale upgrade per il 2018-19. L’ex Jazz è apparso però l’ombra di se stesso, tirando con appena .415 dal campo nei primi quattro mesi di stagione e registrando ben dieci punti di media a partita in meno rispetto alla sua stagione da All Star. L’apparente risveglio di fine anno si è poi dimostrato un fuoco di paglia, avendo giocato una serie contro Milwaukee da 7.4 punti a partita e un -43 totale di plus/minus. L’errore è stato a monte da parte di Brad Stevens, che lo ha inserito subito in quintetto forse più come favore personale che per meriti oggettivi. Altrettanto deludenti sono state le prestazioni di Jayson Tatum. Qui il “colpevole” è facilmente identificabile in Kobe Bryant, trainer del sophomore l’estate scorsa. I cambiamenti nel gioco di Tatum hanno però indotto a pensare che questi abbia assimilato solo i tratti peggiori del Mamba. Da ottimo tagliante e tiratore piedi per terra, l’ex Duke ha iniziato a cercare in maniera compulsiva isolamenti e tiri dal midrange, retaggi di un basket inefficiente e ormai superato.

Con due tali stelle in difficoltà già da inizio anno, la tavola sembrava apparecchiata affinché Kyrie abbracciasse il tanto agognato ruolo di leader e sistemasse le cose dentro e fuori dal campo. Al contrario, la sua presenza non ha fatto che peggiorare le cose su entrambi i fronti. In spogliatoio, la mancanza di chimica è apparsa come Boston Celtics fallimento 2019un ostacolo insormontabile e il play ne è il principale responsabile. Già lo scorso febbraio, Marcus Morris, veterano e Grillo Parlante della squadra, aveva avvertito tutti della sua preoccupazione per uno spogliatoio disunito. A suo dire, “When I look at us I just see a bunch of individuals […] We’re going to lose games, but we don’t have no attitude, we don’t have no toughness, we ain’t having fun.” Una sirena d’allarme che però non sembrava turbare più di tanto Kyrie. La sua pungente replica è arrivata da una parte puntando il dito sui giovani del gruppo, a suo dire troppo immaturi per gestire le alte aspettative, e dall’altra tranquillizzando l’ambiente con un ‘tanto poi ghe pensi mi’ di lebroniana memoria, messaggio recepito in maniera quantomeno contrastante dai compagni.

Non a caso però, i deludenti risultati come leader sono andati di pari passo con quelli in campo. Il tanto atteso arrivo di “Playoff Kyrie,” auto-proclamatosi panacea di ogni male, è stato un flop clamoroso. L’impressionante 5-0 in avvio di playoff aveva illuso alcuni fan, ma, come la competizione è salita di livello, su Boston è calato il buio più totale. A seguito del blitz in Gara 1 contro i Bucks, i Celtics sono stati annichiliti nelle successive quattro partite e il contributo di Kyrie è stato a dir poco catastrofico. All’interno del poker di sconfitte, il play ha vissuto la peggior serie negativa al tiro della carriera, finendo 25-su-83 dal campo (.301) e 5-su-27 da tre (.185). Direttosi verso il tunnel degli spogliatoi prima ancora della sirena di fine Gara 4 sotto una sonora pioggia di fischi, in molti hanno avuto l’impressione di aver assistito alla sua ultima partita al TD Garden in maglia Celtics. Perdere un talento come Kyrie senza contropartita è sempre un trauma, ma in questo caso la sensazione è che Boston se la caverà più che bene.

In fondo, nei due anni di Kyrie in Massachusetts, i Celtics hanno un record migliore senza di lui (.661) che con lui in campo (.614), frutto di una circolazione di palla più fluida che contribuisce ad incrementare sia il point differential che la percentuale di assist. Sebbene la differenza non sia astronomica nei numeri, non è nemmeno comparabile a ciò che storicamente succede alle altre squadre quando il proprio leader, specie se chiamato LeBron James, non è sul parquet. In più, va ricordato che nel 2017 e nel 2018 i C’s sono arrivati entrambe le volte ad una sola vittoria dalle Finals, trascinati rispettivamente da Isaiah Thomas e Terry Rozier. Nel primo (e unico?) anno al timone di Kyrie, sono invece stati maciullati già al secondo turno, peraltro dalla stessa squadra che un anno prima avevano eliminato. Insomma, se è vero che Kyrie ha fretta di levare le tende, al tempo stesso è legittimo pensare che i suoi compagni, come suggerito da Jalen Rose, saranno ben felici di aiutarlo a fare le valigie.

MVProf

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