Underdog dall’eccellente pedigree

I Patriots sono ancora qui. Ve lo aspettavate? Beh, probabilmente sì

“Ah, i grandi, irreprensibili New England Patriots. Non sapevo giocassero anche i Super Bowl” – dixit… nessuno. Difficile infatti essere sorpresi dai successi di New England, che hanno letteralmente presenziato al 50% dei Super Bowl giocati negli ultimi diciotto anni, con addirittura quattro gettoni negli ultimi cinque anni. D’altronde, un traguardo alla portata quando si hanno due GOAT, uno in campo e uno in panchina. Stando a Vegas, i Patriots erano favoriti ancor prima che la stagione iniziasse, lo sono stati in ogni singola partita di regular season e lo sono anche adesso, a poche ore dall’inizio del Super Bowl LIII. Eppure, il motto ripetuto allo sfinimento durante i playoff e urlato dal palco dallo stesso Tom Brady è “We’re Still Here.” Una frase che sottintende che la permanenza dei Patriots ai playoff sia una sorta di singolarità inattesa. Quanto può essere legittimo allora attribuire alla dinastia più vincente di sempre questa bizzarra etichetta di underdog?

A dispetto di quanto possa apparire, questo attributo ha diritto di cittadinanza. Per prima cosa, basti pensare all’ultimo anno e mezzo vissuto a Foxboro. Le presunte faide interne e la trade di Jimmy Garoppolo, i dubbi su “nonno” Brady con l’arrivo dei temuti 40 anni, l’esclusione a sorpresa di Malcolm Butler dal Super Bowl LII e la susseguente sconfitta contro i Philadelphia Eagles. Nel 2018, arrivano poi la squalifica di Julian Edelman, l’infortunio della prima scelta Isaiah Wynn già in preseason, le porte girevoli fra i wide receiver che hanno coinvolto anche il recidivo Josh Gordon, il Miami Miracle e il conseguente record perdente in trasferta. Per una squadra “normale,” questa è una serie di sventure tutto sommato da Brady We're Still Heremettere in preventivo. Anzi, se chiedete a Browns e a Chargers, si tratta di un normale mercoledì di lavoro. Ma non per i Patriots, la corazzata che cominciò la propria navigazione in solitaria nel 2001 proprio contro i Rams e proprio da sfavorita.

Il motivo è che quella squadra era capitanata da Tom Brady, selezionato con la scelta #199 solo un anno prima. Un giocatore qualunque scelto al 6° giro avrebbe tenuto un profilo basso. Ma non Brady, certo di essere la miglior decisione mai presa dalla squadra. Non è l’unico grande giocatore ad utilizzare questo spirito come carburante. Lo ha sa bene Kurt Warner, la cui carriera da Hall of Famer è passata dagli scaffali di un supermercato dell’Iowa. Passando al basket, bisogna ricordare Steph Curry, il primo MVP all’unanimità e organizzatore dell’Underrated Tour per talenti che, come lui, sono stati scartati. E perfino Michael Jordan, che da sempre tiene un taccuino in cui segna i nomi dei suoi nemici, a cominciare dal suo coach del liceo.

E se tale ideale alimenta il fuoco sacro di questi campionissimi, come pensate che debbano sentirsi Edelman, ex QB a Kent State, Hogan, ex giocatore di lacrosse, oppure Gronk, ormai etichettato come un ex giocatore? Certo, parlare di tutti loro come giocatori con ancora qualcosa da dimostrare dopo una carriera stellare può essere un’esagerazione. Ma molto spesso è proprio il mantenimento di tale prolungata eccellenza la sfida più difficile. Già lo scorso anno i Pats si sono presentati alla partitissima con fare tracotante, salvo poi vedere da vicino il potere trascendentale della mentalità da underdog e pagarlo sulla propria pelle. Quest’anno, niente maschere da cane, ma lo stesso spirito e un motto per galvanizzare le truppe: “We’re Still Here.”

MVProf

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