Tutti giù per terra

Cosa è cambiato e cosa no dalla protesta a tappeto di un anno fa

È trascorso un anno esatto da quando, in Week 3, più di 200 fra giocatori, staff e dirigenti NFL protestarono uniti e compatti contro Donald Trump. Pochi giorni prima, il presidente USA aveva proferito commenti incendiari nel commentare la protesta dei giocatori. Definì chiunque si inginocchiasse durante l’inno un “son of a bitch” e un ingrato, e per questo merita di essere licenziato in tronco. Dal suo podio in Alabama, era apparso quasi come un imperatore romano che con un gesto del pollice aveva il diritto di decidere della sorte di moderni gladiatori. La reazione che fece più clamore fu quella dei Dallas Cowboys, che durante il MNF si inginocchiarono dal primo all’ultimo in mezzo al campo. Fra loro, anche il 75enne proprietario Jerry Jones, le cui simpatie per Trump non sono certo un segreto. Mai prima di allora si era vista un tale spiegamento di forze così compatto da costa a costa.

Smaltito l’effetto sorpresa, già nell’immediato quello che sembrava un momento di grande coesione si rivelato una farsa. Il messaggio dei proprietari era sì di unità, ma in difesa dei propri interessi economici dalle continue ingerenze e inviti al boicottaggio di Trump. Insomma, un battibecco tra miliardari. Niente di più lontano dal messaggio originale di Colin Kaepernick, il cui scopo era gettare luce sulle ingiustizie sociali patite dalle minoranze. Dirottare il discorso verso l’inno, la bandiera, i militari, i rating e il fatturato era già stato un modo per corromperne il messaggio. Reindirizzarlo in un “noi contro lui” è stato il modo finale per bastardizzare quanto di buono era rimasto. Bastava leggere i comunicati stampa dei team, una pletora di parole altisonanti, ma vacue. Trump NFL protestaLa classica tautologia del tipo, siamo uniti per quello che è giusto e quel che è giusto è stare uniti. Ad un anno di distanza, che cosa è davvero cambiato?

Nei mesi successivi alla protesta di gruppo, il dibattito non si è arrestato. La risposta dalla Casa Bianca si è manifestata nella controprotesta reazionaria di Mike Pence e nei tweet presidenziali che invocavano invano la sospensione dei ribelli. In dicembre, lega e Players Coalition si sono accordati su un investimento di quasi $90M a sostegno delle comunità più disagiate. Per alcuni un passo nella giusta direzione, per altri non abbastanza. Col nuovo anno, Roger Goodell ha annunciato una politica che bandiva le proteste durante l’inno nel 2018, decisione presa sotto dettatura nemmeno troppo segreta dello Studio Ovale. Tuttavia, tempo due mesi e la proposta è collassata sotto il peso delle sue stesse lacune normative. Ad agosto, Kap è tornato sulla breccia, prima ricevendo il via libera per la sua causa contro la lega e poi annunciato la sua campagna pubblicitaria con Nike. Tuttavia, il campo resta per lui ancora un miraggio.

Dall’esterno, può apparire come una lunga serie di eventi, qui peraltro riassunti in maniera estremamente asciutta. Nella sostanza, quasi nulla è cambiato. La protesta si è assestata su una quantità di giocatori più ristretta, ma resta viva e vegeta. Lega e proprietari continuano a cercare un’intesa fra le parti che rimane lontana. Trump, infine, non ha mai smesso di sfruttare la questione per scopi elettorali. Ironicamente, coloro i quali credono nella protesta sono caduti nella stessa trappola dei loro avversari. Se infatti questi ultimi insistono come la protesta sia contro militari e bandiera, i primi hanno finito per fare di Trump il simbolo del proprio dissenso. Questi può a ragione essere visto come l’incarnazione di molti dei vizi umani, ma egli ne è una semplice espressione, un veicolo che non ha certo inventato odio, razzismo e discriminazione. Anche dopo di lui, essi rimarranno. Non bandiere, né ginocchia o presidenti: il vero nemico vive dentro di noi.

MVProf

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